venerdì 9 giugno 2023

Ombra - Schegge di Vetro - Estratti

 




Red era bella.
Una mano sapiente sembrava aver scelto dal suo multietnico patrimonio genetico solo quelle caratteristiche che contribuivano a fare di lei il prototipo di una bellezza oggettiva e indiscutibile.
Capelli rossi come fiamma, che le erano valsi il nomignolo con cui la conoscevano tutti.
Enormi occhi azzurri dal vago taglio orientale.
Pelle d’alabastro.
Alta, slanciata, lineamenti fini e un viso sempre pronto al sorriso.
Inoltre aveva un buon carattere, era sinceramente modesta, generosa fino all’autodistruzione e sembrava del tutto incapace di provare il sentimento dell’odio verso chicchessia.
Nelly era tutto l’opposto.

Non aveva lineamenti particolari. Non aveva grandi e glaciali occhi azzurri, ma banalissimi occhi scuri che sembravano grumi di carbone. Nemmeno l’inconfondibile chioma rossa, ma un semplice ciuffo di capelli castani lisci come spaghetti scotti.
Sin da bambina Nelly era stata etichettata come insignificante, e la sua natura schiva era stata scambiata per scontrosità, contribuendo significativamente al suo isolamento.
Prendere la parola per prima le era penoso. Si sentiva sempre attanagliare dalla paura di risultare noiosa e irritante, per cui, nonostante tutte le buone intenzioni, finiva sempre col tacere. D’altro canto, era piuttosto raro anche che qualcuno cercasse di rivolgerle la parola e, quando accadeva, lei non sapeva che fare per portare avanti la conversazione correttamente.
Nelly non sapeva rapportarsi con le persone.
Gli altri la spaventavano.
Gli adulti, i ragazzini della sua età, persino i bambini le sembravano infinitamente più capaci e intelligenti di lei. Inevitabilmente finiva col sentirsi stupida.
Nelly non sapeva niente. Tutti gli altri sembravano sapere sempre tutto.  Finiva col sentirsi schiacciata sotto il peso della sua inettitudine.
Quando riceveva un complimento da qualcuno, andava in panico. Accadeva così di rado che perdeva le sue già esigue capacità colloquiali e finiva col fare o dire sempre la cosa sbagliata. Risultava sprezzante o brusca, quando in realtà era solo orribilmente imbarazzata.
Prima di Red, Nelly non aveva mai avuto un’amica.
Forse per una sua incapacità intrinseca di pensare male della gente, Red non era retrocessa davanti alle reazioni schive di Nelly. Aveva continuato ad approcciarsi a lei come se nulla fosse, in quella maniera gradevole e un po’ giocosa che la caratterizzava, capace di lasciare piacevolmente spiazzati.
Riuscì infine ad aprire una breccia nelle difese di Nelly, che le sorrise.
«È bello il tuo sorriso, dovresti sorridere più spesso! Anzi, no! Dovresti sorridere sempre!»
Quella frase aveva suggellato il principio della loro amicizia.
Nelly adorava Red.
Di più: la venerava alla stregua di una dea e tutta l’ammirazione di cui era oggetto le appariva come il naturale corso delle cose e le gonfiava il cuore di soddisfazione.
Con Red, Nelly aveva scoperto una nuova se stessa. E, anche se con il resto del mondo continuava ad essere l’inetta asociale che era sempre stata, averla le bastava per sentirsi felice, completa, capita come non le era mai accaduto prima d’allora.
Red era il centro gravitazionale attorno a cui era lecito, per non dire ovvio, per non dire doveroso, che il mondo intero ruotasse incondizionatamente.
I suoi occhi si aprirono, combattendo il riverbero accecante dello specchio, e la videro: Red. Ma era una Red diversa, con un lucore amaro negli occhi grandi come oceani.
Si toccò il viso e il suo riflesso, nella pelle di Red, fece lo stesso.
Era diventata identica a Red.
Si guardò le mani. Piccole e agili, disegnate come per correre leggiadre sulla tastiera di un pianoforte, delicate come piume di cigno. Le mani di Red.
Aveva persino il suo stesso neo dietro l’orecchio, quello che si vedeva solo quando Red legava i capelli in una coda alta.
Col fiato spezzato, contemplò se stessa nella sua nuova forma.
Le ore si dilatarono fino ad abbracciare l’eternità, colmandole il cuore di una gioia incalzante e sconosciuta. Una gioia incommensurabile, talmente meravigliosa da farle sentire la paura che ne sarebbe potuta esplodere.
Si precipitò a casa dell’amica.
Certa che sarebbe stata felice quanto lei di quella uguaglianza che le rendeva come gemelle. Finalmente sorelle nella carne, oltre che nello spirito. Ma non trovò la solita Red.
La pelle emaciata.
I capelli castani opachi legati in una treccia che si affloscia sulla spalla.
Gli occhi come pozzi privi di luce.
L’espressione rigida di chi non ha la volontà di trovare alcun brandello di gioia in niente e resta perennemente incontentabile.
Ad attenderla, c’era Nelly.
Nelly, cupa come un cielo coperto che toglie la voglia persino di respirare.
Una ragazzina grigia, priva di colore e di luce. Noiosa, imbronciata e sempre scontenta di tutto, si discosta così poco dall’insignificante ambiente intorno che finisce col fondersi con esso e diventare completamente invisibile.
Sono così?
Agli occhi di tutti… io sono così?
Il risveglio la colse come una fucilata al petto.
Si diresse allo specchio.
Grigia e triste.
Che motivo ha Red per volere bene a una come me?

Da quel giorno, qualcosa di nuovo e sconosciuto si fece spazio dentro il suo cuore, macchiando la purezza dell’affetto che nutriva per Red.
Guardare gli altri che le orbitavano intorno del tutto ammaliati non le procurava più alcun piacere. Piuttosto le causava un doloroso vuoto nello stomaco, come se qualcuno la colpisse violentemente all’addome.
La soddisfazione divenne sofferenza, e poi qualcosa che non riusciva a definire, ma aveva il sapore amaro del veleno.
Ogni successo di Red divenne l’ostacolo alla sua personale espressione.
I suoi sorrisi non furono più un punto di quiete nella tempesta.
La sua amicizia divenne un mostro che attimo per attimo minacciava di schiacciarla con il proprio peso.
Nelly si agitava lungo le stanze della sua esistenza sempre più esasperata da se stessa, esacerbata verso tutto e tutti e desiderosa di fare a pezzi il mondo senza trovare una buona ragione per lasciar esplodere tutto quel veleno che si gonfiava spinoso dentro di lei.
Nelly non riusciva a disegnare.
Quella mattina il professore di educazione artistica sembrava particolarmente nervoso. Continuava ad aggirarsi tra i banchi spiando le mani degli alunni intenti al lavoro.
I suoi passi la deconcentravano, il cielo uggioso fuori dalla finestra la incupiva e il foglio bianco sembrava divenire sempre più grande e insormontabile. Istintivamente lanciò uno sguardo al disegno di Red.
In passato, osservarla a lavoro le era d’aiuto per trarre l’ispirazione giusta.
Il disegno era la sola cosa in cui Red fosse seconda.
Nelly era sempre stata la migliore.
C’era un trasporto emotivo nei suoi schizzi che Red non sarebbe mai riuscita ad imprimere.
«I tuoi disegni hanno l’anima», le diceva sempre Red.
Ma ora lei era davanti al foglio intatto, bloccata, mentre Red creava spirali di colori che trascinavano nel profondo del sogno.
«Perché non lavoriamo, signorina?»
Nelly sussultò nel ritrovarsi il professore alle spalle.
«Non… non riesco…» balbettò.
«Suvvia, non ci vuole molto. Inizia a disegnare. Guarda la tua compagna di banco che bel disegno sta facendo!»
Red si volse verso il professore e sorrise.
Quel sorriso che mandava in visibilio il mondo e lo spingeva a girare al contrario.
Quel sorriso che decretava la sua fine.
Non avrebbe più avuto nemmeno il disegno.
Red la stava privando anche di quello.
Si guardò intorno.
Improvvisamente si rese conto di cosa fosse realmente accaduto: era rimasta sola.
Da quanto tempo nessuno dei suoi compagni le rivolgeva più la parola?
Da quanto tempo era diventata l’ombra di Red?
Guardò i compagni di classe accalcarsi per sbirciare il disegno dell’altra.
Provò a tracciare una linea a caso.
La mano rimase ferma, pietrificata dov’era come se si rifiutasse di ubbidirle.
Le dita tremarono, mentre la vista le si offuscava per le lacrime.
Non c’era anima.
Il foglio era morto. Esattamente come lei.
Le ombre non possiedono un’anima. Sono solo la proiezione dei contorni di un corpo investito dalla luce. Sono illusioni effimere.
La presa si allentò.
La matita cadde a terra, rotolando.
Nelly si alzò.
Varcò la soglia della classe senza che nessuno, nemmeno il professore, si accorgesse di nulla.

Camminò.
Camminò in un mondo privo di colori.
Lungo il corridoio grigio, lungo il cortile incolore, lungo il viale d’ingresso orlato di alberi plumbei.
Lì, la colse la pioggia.
Iniziò sottile come una coltre di minuscole spine che solletica la pelle. Si conficcò nella sua epidermide in una cascata pungente.
Divenne più intensa, le rigava il viso confondendosi con le sue lacrime. Le inzuppava i capelli e i vestiti irrorandola di nuova vita.
Infine, divenne tempesta ruggente.
Nelly chiuse gli occhi e reclinò il capo all’indietro. Spalancò le braccia accogliendo il temporale fin nel profondo di se stessa, fino a divenire ella stessa pioggia e tempesta.
La forza poderosa della natura l’avvolgeva nelle sue braccia liquide, la permeava e scaturiva da lei, dando espressione tangibile al caos delle sue emozioni.
Il vento sospinse dolcemente i suoi passi mentre la pioggia continuava ad accarezzarla con la sua liquida mano pressante e i fulmini riempivano il cielo di zigzaganti luci color malva, illuminando il suo cammino di gelidi aloni spettrali.
La città era vuota.
Tutti si erano rifugiati nelle case, chiudendo la natura fuori.
La temevano.
Nelly no.
Finalmente sapeva.

Il mare si mostrò ai suoi occhi in tutta la sua mostruosa bellezza. Le onde si sollevavano in muri opachi orlati di spuma ruggente.
Camminò sulla battigia sconvolta dalla pioggia.
Senza esitare entrò in acqua.
Acqua fredda e popolata di gorghi che le succhiarono i polpacci come sanguisughe.
Affondò le mani nei flutti, li abbracciò, lasciandosi abbracciare dalla loro potenza.
Il profumo salmastro le riempì il respiro e le lacrime che le scivolavano in bocca divennero salate.
La carezza del mare la sommerse.
Sentì morbide dita liquide scorrere tra i suoi capelli sciolti, aggrapparsi tenacemente alle stoffe pesanti della sua divisa scolastica, stringersi sulle sue caviglie e intrecciarsi alle sue dita, intrappolandola in una ragnatela di flussi sottomarini.
Per qualche attimo l’istinto la portò a lottare contro la forza poderosa che la fagocitava, spingendola nelle profonde oscurità. Poi si rese conto che resistere non aveva alcun senso. Andava contro tutto quello che era la sua volontà.
Cedette.
La maestosità del mare profuse nel suo respiro con la forza di coltelli roventi, fino in fondo ai suoi polmoni.
Ignorando il dolore, Nelly sorrise mentre diveniva parte del tutto.

Mani dure.
Nodose.
Taglienti.
Si serrarono dolorosamente al suo gomito.
Una forza estranea al mare la sottrasse alla quiete subacquea, esponendola alla furia della superficie e della pioggia.
Non provò paura.
Sollevò la mano contro il viso della morte. Voleva toccarne il teschio.
Trovò uno strato freddo e morbido di pelle.
Affondò le unghie.
Nessuno le aveva mai detto che la morte può sanguinare.

Dietro l’ultima linea del mare l’ultima tempesta ha lasciato grigie striature sul volto del cielo, come blande cicatrici di graffi ormai rimarginati.
Tocca istintivamente le cicatrici traslucide sul suo braccio destro.
Alla luce del sole appena sgusciato dopo il temporale, si mostrano nitide, segni di artigli metallici a memoria eterna del giorno più orribile della sua vita.
Dall’alto del cimitero arroccato sul fianco della montagna si può vedere tutto l’orizzonte. Tutta la vastità del mare che ora risplende come una distesa di diamanti tirati a lucido.
Si domanda se la vista che avrà per sempre le piaccia o le causi orrore.
Non potrà mai saperlo.
Si china sulla lapide.
Il vento salmastro ha ormai scrostato quasi del tutto il nero nei solchi delle lettere incise e la lastra di marmo appare di un biancore niveo e abbacinante sotto i raggi prepotenti del sole estivo.
Con le dita accarezza la scritta sbiadita. Una lacrima traccia un percorso lucido sul suo viso, incidendo un solco profondo come un abisso dentro la sua anima.
«Ciao…» bisbiglia, la voce rotta dal pianto. «Sarei dovuta morire io, quel giorno. Non tu… non tu...»
I singhiozzi la squassano.
Ogni volta la stessa ferocia.
Il dolore non passa. Non si allenta.
La colpa la consuma.
Un pescatore che rientrava in tutta fretta al porto l’aveva intravista fluttuare tra le onde. Aveva cercato di sporgersi dallo scafo della nave, rischiando la vita per afferrarla, ma la tempesta era troppo forte e la piccola imbarcazione aveva rischiato di ribaltarsi.
Aveva deciso di utilizzare l’argano.
I ganci e gli uncini erano affondati nel suo braccio, lacerandoglielo, ma erano riusciti a strapparla alle onde.
Con la mente annebbiata dal dolore e dall’annegamento, Nelly aveva affondato le dita nella  carne dello sconosciuto che la sottraeva alla tempesta e gli aveva graffiato il volto.
In ospedale le era stato suturato il braccio squarciato ed era stata cullata nel torpore indotto dagli anestetici, portatori di un sonno chimico pesante e privo di sogni.
Il destino, però, è un illusionista beffardo.
L’ha capito quel remoto giorno di dieci anni fa.
Quando avevano scoperto che Nelly era scomparsa, mentre tutti si erano dispersi a cercarla in giro, Red aveva aperto il suo diario alla ricerca di un indizio per ritrovarla.
Non vi aveva trovato una traccia che la guidasse fino a lei.
Aveva trovato tutto l’odio che lei le aveva taciuto.
Divenire improvvisamente consapevole che la tua migliore amica in realtà ti odia è il peggiore dei tradimenti, per una ragazzina di dodici anni cresciuta senza madre.
Il dolore di quella scoperta fu mostruoso.
Troppo, perché potesse sopportarlo.
Nelly aveva cercato la morte tra le braccia del mare. Ma la morte era sulla terraferma.
Chiusa nella lama di un taglierino, pronta a ghermire l’anima di Red.
Distrutta dal suo odio.



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